domenica 27 ottobre 2013

Joël Dicker - La verità sul caso Harry Quebert

La curiosità uccise il gatto, come si suol dire: in questo caso è rimasto stordito (per bene, eh!) ma poi si è ripreso.
Lo ammetto: come al solito ho storto il naso come si conviene alla mia supponenza di fronte a un bestseller in cima a tutte le classifiche e come al solito me lo sono ritrovata per le mani per caso, e visto il prezzo consono ad una copia usata ma praticamente intonsa e vista la mia ricerca senza esito in biblioteca ché comunque anche storcendo il naso son pur sempre 700 pagine che gridano "thriller", me lo sono portata a casa.
769 pagine, per essere precisi, metà delle quali fanno venir voglia di metterlo giù (e, confesso, ho anche saltato del tutto qualche bel pezzo), poi viene il dubbio che in realtà Dicker ci stia prendendo in giro, e poi si entra nella spirale del thriller classico e avvincente che porge l'assassino su un piatto d'argento ma ben celato grazie a qualche tranello in cui si cade con gran soddisfazione finale.
La verità sul caso Harry Quebert è in realtà il libro di Marcus Goldman, scrittore di successo bloccato davanti alla pagina bianca e con editori e agente letterario sul collo che ritrova la tanto cercata ispirazione geniale con il tentativo, riuscito, di scagionare il suo maestro, il famoso scrittore Harry Quebert, dall'accusa di omicidio di Nola Kellergan, grande amore della sua vita scomparsa 33 anni prima ad appena 15 anni e i cui resti vengono ritrovati per caso nel giardino della sua villa.
Ambientato ad Aurora, paesino del New England puritano e idilliaco, ossia perfetto per contenere torbidi segreti, è, insieme, un bel giallo e una soporifera soap opera che si potrebbe ben definire assolutamente adolescenziale se non fosse che l'unica adolescente è Nola e in confronto a tutti gli altri (Quebert in testa, che all'epoca ha 34 anni) è una persona matura e saggia.
Però, davvero, soprattutto per via dei brevi intervalli tra un capitolo e l'altro in cui Harry, a punti, spiega a Marcus i segreti per diventare un grande scrittore (ma in realtà gli sta spiegando come diventare un grande boxeur), a metà libro si comincia a pensare che Dicker ci stia prendendo in giro, che ci sia dell'ironia dietro tutti quei luoghi comuni e paragrafi ripetuti, ma non se ne ha il tempo perché ci si ritrova trascinati appunto nel vortice accattivante del thriller (soft, eh!) con un bel finale a sorpresa (perlomeno per me).
500 pagine per sviare il lettore possono anche essere un'opzione, in questo caso si sconfina più di una volta nella noia e nella perplessità: ma ha venduto molto e in un paese in cui si legge, forse, un libro all'anno: tanto di cappello.
Tanto di cappello come al solito anche alla Bompiani, con una incantevole copertina e l'usuale edizione che è sempre un piacere tenere in mano.

sabato 12 ottobre 2013

I.J. Singer - La famiglia Karnowski

Era tanto che lo avevo visto in libreria, ma il nome Singer mi intimoriva un po'.
Forse.
Anche se in realtà non ho capito subito che non si trattava di Isaac ma di suo fratello Israel.
Poi è arrivata una delle mie pause pranzo sottoforma di fuga dal delirio lavorativo e, complici molte recensioni entusiaste e il solito fascino delle edizioni Adelphi, l'ho preso e portato via.
Una scelta delle più felici.
Sono pagine bellissime che coprono una cinquantina d'anni, penetrando in uno dei periodi più bui della storia attraverso tre generazioni della famiglia Karnowski, di David che lascia la natia, arretrata Polonia per la moderna e erudita Berlino assieme alla moglie Lea, che rimpiangerà invece per sempre la vita semplice di Melnitz, del loro figlio Georg che, dopo un'adolescenza ribelle concretizzerà il "sii ebreo in casa e uomo nel mondo" del padre divenendo un medico stimato e sposando un'infermiera non ebrea, e del loro nipote Jerog che in questa "dualità" si lacererà nel tentativo di negare la sua discendenza ebrea.
E attorno alla famiglia Karnowski ruota tutta la comunità ebraica di Berlino dei primi anni del novecento, i giorni frenetici, le tradizioni e i riti, le rivalità, l'illusione dell'integrazione, la tragedia della prima guerra mondiale, la colpa, le umiliazioni e l'incredulità, l'esodo verso l'America e il rimpianto per la vita di "laggiù".
Una vita  da cui emergono figure mirabili come il vecchio erudito reb Efraim nella sua soffitta piena di vecchi libri polverosi mangiucchiati dai topi, il dottor Landau che svolge la sua professione di medico usando come parcella un piattino su un tavolo nell'ingresso e sua figlia Elsa, indomita e fiera che si erge sulla sua stessa storia, non esitando a buttarsi nella mischia della politica, e Solomon Burak, dal geniale fiuto per gli affari, che accoglie sotto la sua protezione e in casa sua chiunque abbia bisogno e non esita a ricominciare, quando si ritrova in America senza niente, quasi fosse un dovere verso gli altri, dalla sua povera valigia di venditore ambulante.
E' un libro vivido e potente, mai noioso, carico di presagi, "chiaroveggente" come riportato nell'aletta (quanto sono belle le alette dell'Adelphi? E mai firmate...) e considerando che è stato pubblicato nel 1943.
Un libro che ho chiuso con un sospiro, grata per aver avuto l'opportunità di leggerlo.